
La ricerca evidenzia che oggi il diabete intimorisce molto meno rispetto al passato, anche per la disponibilità di nuove tecnologie come i device che permettono una gestione più semplice e un evidente miglioramento della qualità della vita.
Oltre l’80% del campione ritiene di essere ben informato sulla malattia, sulle sue complicanze e sulle modalità di somministrazione della terapia e solamente 2 intervistati su 10 si dichiarano non sufficientemente informati.
L’idea di convivere tutta la vita con il diabete appare fondamentalmente accettabile per la maggioranza dei pazienti, a testimonianza di una maggiore consapevolezza della curabilità della malattia, ma permane una forte componente emotiva collegata alla ritualità dell’iniezione che condiziona alcuni comportamenti radicati nel passato, per esempio riguardo al pudore nel farsi vedere in pubblico durante l’iniezione di insulina. L’impatto complessivo sulla qualità della vita, sia dal punto di vista psicologico che fisico, viene percepito in modo molto diverso, probabilmente in relazione al livello individuale di sensibilità e alla capacità di gestire l’ansia collegata al proprio vissuto.
Tra gli intervistati emerge un interessante gruppo che dimostra una maggiore accettazione della patologia, vivendo il diabete come una condizione di vita, come testimoniato anche da una comprensione e da un linguaggio più adeguati alla malattia. I soggetti con questo atteggiamento tendono a razionalizzare la gravità della condizione, riportandola a un insufficiente funzionamento dell’organismo, la cui causa è identificata nella genetica. Generalmente, la consapevolezza nella gestione della malattia e l’assunzione di un ruolo attivo nel suo controllo, anche se complessi, contraddistinguono le persone con diabete di tipo 1, che fin dalla giovane età sono state addestrate a gestire la terapia diventando autonome ed esperte, rispetto a chi ha incontrato la malattia da adulto.
Accanto a questa tipologia di pazienti, d’altra parte, esiste un gruppo che considera il diabete una malattia decisamente invalidante, testimoniando il carico associato e le difficoltà quotidianamente incontrate nella sua gestione. Questo atteggiamento può determinare un’attivazione di alcuni meccanismi di rimozione, con le relative difficoltà ad accettare i limiti imposti dalla condizione patologica, portando, per esempio, ad enfatizzare il ruolo terapeutico di fattori come l’alimentazione e a svilire quello della terapia farmacologica, che viene rimossa dalla sua centralità nella gestione del diabete.
Un altro aspetto che emerge dallo studio è che il paziente con diabete di tipo 2 tende a vivere il passaggio alla terapia con insulina come una sconfitta e una caduta incontrastabile del proprio stato di salute, che determina un importante peggioramento della qualità di vita in relazione ad un incessante impegno richiesto dalla terapia iniettiva.
Generalmente, la necessità di assumere l’insulina per via iniettiva pesa tantissimo sul vissuto della malattia: la maggior parte degli intervistati percepisce la terapia iniettiva come una vera e propria malattia a sé stante, che rende schiavi di una serie di regole e procedure ripetitive e imprescindibili, a partire dal controllo costante della glicemia. L’iniezione è ritenuta l’aspetto più impattante, quello che crea più disagio soprattutto in relazione alla ripetitività del gesto, legato alle svariate somministrazioni quotidiane, alla difficoltà incontrata nell’eseguire l’iniezione, che può comportare dolore o fuoriuscita di sangue, e al carico organizzativo per la sua gestione fuori casa, che determina anche un considerevole stress psicologico dovuto alla necessità di mostrarsi in pubblico. Ulteriori criticità legate alla gestione fuori casa della terapia comprendono l’odore dell’insulina, il cambio dell’ago in pubblico e la possibile dimenticanza dell’occorrente per l’iniezione, che potrebbe determinarne il non rispetto della terapia.
Per quanto concerne la formazione su come somministrare la terapia, il 90% degli intervistati ritiene di avere ricevuto informazioni utili e complete. Il medico diabetologo emerge come la figura professionale di riferimento per il paziente anche riguardo alla tecnica iniettiva, mentre molto meno rappresentativa sembra essere la figura dell’infermiere, in parziale contrasto con il ruolo educativo che questi detiene nella pratica clinica.
La stragrande maggioranza degli intervistati attribuisce un ruolo centrale all’ago nella somministrazione dell’insulina, ma, di fatto, molti pazienti non sanno spiegare le ragioni di tale importanza; pur ritenendosi sufficientemente informati, le nozioni ricevute sull’ago sembrano essere piuttosto superficiali, legate a una descrizione delle sue caratteristiche tecniche, come lunghezza e spessore, più che alla modalità con cui esse devono essere adattate alle reali esigenze personali. La maggioranza riferisce che l’ago deve essere corto per arrivare nel sottocute e non nel muscolo, ma ritiene che l’ago molto corto sia più indicato nei bambini o nelle persone esili e che l’ago troppo corto rischi di provocare la perdita dell’insulina durante la somministrazione. Nella scelta dell’ago, si tende a fare riferimento a caratteristiche della persona come il peso, la massa muscolare e il sito di somministrazione. In ultima analisi, i pazienti vorrebbero disporre di aghi migliori o meno dolorosi per somministrare la terapia e ritengono che il dolore avvertito durante l’iniezione dipenda principalmente dallo spessore dell’ago.
Altro dato interessante è che circa il 60% degli intervistati ricerca ulteriori informazioni sugli aghi, rispetto a quelle ricevute; la principale fonte a cui si rivolge rimane il medico diabetologo, seguito dalla ricerca in autonomia sul web, mentre una piccola parte dei pazienti interpella il medico di medicina generale. La maggioranza delle persone intervistate tende ad utilizzare sempre la stessa marca di ago prescritta dallo specialista diabetologo, mentre la sostituzione da parte del farmacista è un fenomeno limitato e non viene mai vista di buon grado.
Buona lettura